domenica 19 settembre 2010

Il Gran Buffet


L’assenzio è un liquore dolce. Quando il verde liquido infuocato scende nella gola, fino a incontrare le immacolate pareti interne dello stomaco, ti senti soffocare e rinascere allo stesso tempo. La tua gola si stringe e ti senti come dopo giorni e giorni di tosse violenta. Lo stomaco grugnisce, non sapendo come accogliere una sostanza così nociva e allo stesso tempo perfetta. La mente si appanna, quando i fumi dell’alcool iniziano ad entrare in circolo nel flusso sanguigno. Ti senti privo di forze, come un malato sul letto di morte, ma allo stesso tempo ti senti anche come quando l’aria bruciante del tuo primo respiro di vita si insinua a forza nei polmoni, mentre sei ancora coperto del sangue di tua madre.
Esattamente come volevo sentirmi in quel momento.
Quel bar in periferia era tutto tranne che il posto ideale in cui passare la notte. L’interno era tutto il legno e marmo lucido, le pareti tappezzate di imitazioni di quadri d’autore. Il pavimento tirato a specchio. Ma le facce dei suoi avventori… avevano qualcosa che non andava. Facce macilente, come se tutti loro fossero malati, oppure prossimi alla morte. Ma allo stesso tempo, i loro occhi erano pieni di felicità. Il genere di felicità che hai quando sei grato di essere ancora vivo.
Avevo appena finito di bere il secondo assenzio, quando al mio fianco udii una voce femminile, bassa e calma. Sembrava quasi che la proprietaria di quella voce fosse strafatta di morfina.
“Altri due. Offro io al signore qui di fianco.”
La guardai. Una donna di media statura, dai capelli scuri, sulla trentina. La pelle era del colore del miele, le forme non perfette ma senz’altro notevoli. Indossava una gonna bianca e lunga, e sopra di essa una camicetta dello stesso colore. L’unica nota dolente del suo bel corpo era dato dalla manica del braccio sinistro: penzolava dalla sua spalla come un serpente morto appeso ad un albero. Era sgonfia. L’intero braccio doveva essersi preso una bella vacanza permanente dal resto del suo corpo. I suoi occhi verdi brillavano, come quelli del resto degli avventori
“A cosa devo questo onore?” le chiesi.
“Dalla tua espressione sembra che tu abbia un forte bisogno di bere, ma non hai abbastanza soldi per poterti permettere di ubriacarti. Hai trovato la tua samaritana.”
“Hai ragione” mentii. Potevo permettermi tutti i drink che volevo. “Sei una vera psicologa. Ti ringrazio.”
“No, non farlo. Non sai ancora se la mia buona azione ti porterà del bene o del male. Potresti ubriacarti in maniera talmente pesante da avere un brutto incidente andando a casa. E allora odierai me e quel drink di troppo.”
Annuii, guardando la sua manica morta e chiedendomi se le sue parole erano frutto di una qualche esperienza personale.
Si sedette di fianco a me, senza altre parole. I due bicchierini colmi del verde liquido fiammeggiante arrivarono. Placai le fiamme e lo tracannai, non badando al calore infernale che emanava. La mia compagna di bevute fece lo stesso.
“La scorsa settimana sono stato licenziato dall’ospedale. Sono un chirurgo, e ho fatto morire un paziente di troppo. E oggi mia moglie se ne è andata” dissi. “Sta andando tutto in vacca. Quindi sono andato nel primo bar mai visto che ho incontrato e ho iniziato a bere.”
“Per buttarti ancora più giù? Qual è il senso di tutto ciò?”
“Che intendi?”
“Intendo dire, se sei così tanto nella merda, perché vuoi buttarti ancora più nella merda bevendo?”
“Credo che quando sei nella merda non devi tentare di mantenerti a galla. Affonda. Sotto troverai di sicuro un appoggio solido con cui darti la spinta necessaria a lanciarti fuori. O almeno è così che la penso io.”
“E se non ci fosse un appoggio?”
“Allora non avrebbe neanche senso nuotarne fuori, non ti pare?”
“Riconosco queste parole” disse lei sorridendo. “Sono le mie.”
Annuii e alzai lo sguardo. I suoi occhi brillavano.

Prendemmo una stanza d’albergo e scopammo per tutta la notte. Nonostante avesse un braccio in meno, al buio non notai la differenza. Riuscii a vedere di sfuggita la cicatrice che aveva all’altezza della spalla: un taglio netto e poi ricucito con precisione chirurgica. Di diversi mesi, forse anni prima. Troppo buio per dirlo.
Il mattino dopo, quando mi svegliai, la trovai già vestita. Stava sgattaiolando fuori dalla porta, sperando che non la vedessi.
“Te ne vai di già?” le chiesi.
“Si, devo andare. E non so se ci rivedremo.”
“Toglimi una curiosità. Cosa hai fatto al braccio?”
“Vuoi davvero saperlo?” chiese con voce seria. Io annuii.
“Rivediamoci questa sera allo stesso bar. Te lo mostrerò.”
Si voltò e senza dire altro, se ne uscì sbattendo la porta.
E non so ancora come si chiama, pensai.

Fino all’ultimo non seppi se tornare in quel posto. Potevo tornare indietro, tentare di fare pace con mia moglie e porre fine a questa storia. Ma sentivo di non aver ancora toccato il fondo della mia piscina di merda personale.
Ci ritornai. Le facce erano le stesse della sera prima e lei era seduta allo stesso tavolo. Mi aspettava con un bloody mary davanti a sé e un altro davanti al posto che sarei presto andato ad occupare. Mi sedetti e lei mi fissò.
“Bevi. Ti servirà” disse.
Trangugiai il mio drink. Lei non sembrava essere intenzionata a toccare il suo. La fissai per qualche istante, poi lei si alzò.
“Seguimi” mi disse. Lo feci senza chiedere spiegazioni. Ci dirigemmo verso i bagni del locale. Di fianco alla toilette delle signore, c’era una grande porta di ferro con un minaccioso avviso di Vietato l’Ingresso scritto sopra con un pennarello. Bussò alla porta. Una bussata strana. Tre veloci, tre lente e tre veloci. S.O.S. La porta si aprì dopo pochi secondi.
Un massiccio nero vestito con un elegante completo attendeva dall’altra parte. Sorrise alla donna.
“Bentornata, madame. Ha con sé un ospite?”
“Si John. Lui è un mio amico. Non penso che giocherà stasera, ma non si può mai dire. Ci si può fidare di lui.”
John annuì e si fece da parte. Proseguimmo per un lungo corridoio.
Giungemmo ad una piccola stanza. C’era un tavolaccio di legno con due sole sedie. Due uomini erano seduti e stavano giocando a poker. Uno era un anziano dai capelli grigi. L’altro era più giovane e dallo sguardo evidentemente preoccupato. Ci degnarono di uno sguardo infinitesimale, poi ritornarono al loro gioco. La mia compagna si fermò e li osservò in silenzio.
“Coppia d’assi” dichiarò il giovane, con sguardo ora più sicuro. Tra le carte che aveva calato figuravano un asso di cuori e un asso di picche.
Il vecchi annuì, poi calò la sua mano.
“Tris di regine” disse. Vinco io.
Il giovane scattò in piedi, rovesciando la sedia ed appiattendosi contro la parete.
“No… non puoi…”
“Certo che posso” rispose il vecchio. “John! Vieni qui, presto!”
Il gigante nero mi arrivò alle spalle. Guardò il vecchio, attendendo istruzioni.
“Porta il signore in sala operatoria” disse. “Ci deve una mano.”
Il giovane urlò e tentò di scappare. John l’afferrò senza troppi problemi per il collo, facendogli emettere un singulto. Lo trascinò verso un’altra porta, questa aperta, e scomparve dietro di essa. Il vecchio si voltò verso di noi.
“Madame! Che bello vedervi qui, questa sera! E vedo che avete portato un amico!”
“Sì” rispose la mia compagna “potrebbe essere la persona adatta per entrare a far parte di questa follia.”
Il vecchio rivolse un sorriso sdentato verso di me.
“Non mi piace parlare, ma agire. Ti spiegherò come funziona. Qui si gioca a poker. È qui che viene la gente che vuole toccare il fondo. Le scommesse sono molto semplici. Tu scommetti una parte del tuo corpo, e io una certa quantità di denaro. Se vinci tu, ti do il denaro. Se vinco io, mi prendo la parte che hai scommesso. E non tentare di scommettere il culo, non mi piacciono quel genere di cose.”
Rimasi impassibile, con una forte tentazione di fuggire e avvertire la polizia, ma allo stesso tempo morbosamente attratto da quella giocata con la morte.
“Ti farò l’offerta standard per tutti i nuovi giocatori” disse il vecchio. “Diecimila dollari contro il mignolo del tuo piede. Non mi importa quale dei due.”
Rimasi in silenzio, ma non più di qualche secondo. Toccare il fondo. Toccare il fondo.
“Ci sto” risposi.
“Una sola mano” disse il vecchio. “Senza cambio carte. Pura fortuna. Se vinci, ti do diecimila dollari in contanti. Se perdi, nella stanza di là c’è una sala operatoria ben attrezzata, con tanto di macchinari per l’anestesia. Sempre che tu la voglia.”
“Basta cazzate, giochiamo.”
“Distribuisci tu le carte” mi disse.
Mi sedetti e mischiai il mazzo. Cinque carte a testa. Tirai su le mie.
Una coppia di fanti. Non un brutto inizio. La faccia del vecchio era indecifrabile.
“Coppia di fanti” dissi, calando la mano. Il sudore mi imperlava la fronte.
“Sei un uomo fortunato” rispose lui, calando a sua volta. “Io non ho nulla.”
Controllai accuratamente la sua mano, assicurandomi che dicesse la verità.
Lui si alzò, mentre l’altra porta si riaprì e John ne riemerse con il vestito leggermente spiegazzato. Il vecchio si avviò verso una piccola cassaforte a muro e la aprì con una chiave che teneva appesa al collo. Ne estrasse un rotolo di banconote. Venne davanti a me, contò dieci pezzi da mille e me li lasciò davanti.
“Tutti tuoi, campione. Vuoi fare un’altra sfida?”
“No, non ora” gli risposi.
“Come vuoi” disse lui. “Qui sarai sempre benvenuto.”
Il fastidioso rumore di un seghetto da ossa proveniente dall’altra stanza attirò la mia attenzione. Si sentì un urlo strozzato.
“Madame, vuoi giocare tu forse?” chiese il vecchio.
“Non è la mia serata” rispose lei.
“Allora un’altra volta. Io vado ad assicurarmi che tutto vada bene di là. Buona serata.”
John ci accompagnò alla porta. Una volta fuori, rimasi a fissare la mia compagna, con i miei sudati diecimila dollari ancora stretti nel pugno.
“L’ho perso un pezzo alla volta” disse lei. “Prima il mignolo, poi il resto delle dita. Poi l’avambraccio. Infine il braccio fino alla spalla. Non ho sempre perso, sia ben chiaro. Ho guadagnato quasi centomila dollari.”
“Cosa ci trovi in tutto questo?” chiesi.
“Lo stesso che ci hai trovato tu. Ma non è abbastanza. Non gioco da mesi ormai. Ho perso il brivido iniziale. La sensazione di disgusto mista a orrore. Non la provo più. Ormai è diventata una cosa normale, come andare al supermercato o stendere i panni. Non c’è nulla. Cerco qualcosa di nuovo. E forse tu potrai darmelo.”
“Io? Perché io?” le chiesi.
“Pensi come me. Hai giocato anche tu. E sei un chirurgo. Devo solo farti un’altra domanda.”
“Quale?”
“Non sei vegetariano, vero?”

La mia casa in campagna venne completamente attrezzata nel giro di poche settimane. Strumenti per le operazioni chirurgiche, aghi sterilizzati, morfina. Tutto ciò di cui avevo bisogno per assecondare i voleri della mia compagna di cui non sapevo il nome, né lo avrei mai saputo.
Era il grande giorno, e cominciammo. Le anestetizzai una gamba. La sua bella gamba destra, per essere precisi. L’operazione fu dura, ma si concluse nel migliore dei modi. Gliela amputai all’altezza del ginocchio. Con un pezzo di carne come quello, avremmo avuto da mangiare per più di una settimana.
La assaggiammo in tutti i metodi: al forno, allo spiedo, anche cruda. Sapendo che proveniva da lei, il suo gusto mi sembrava sempre dolce. Lei era soddisfatta, e anche io. Nelle settimane seguenti, continuammo il nostro gioco.
Scoprii i vari gusti del suo corpo: alcuni salati, altri dolci. Ma tutti buoni allo stesso modo. Lei era contenta, diceva che quella era la migliore cura dimagrante che avesse mai fatto: mangiava quanto voleva e non ingrassava.
Dopo diversi mesi, non c’era quasi più nulla da mangiare. Gli arti erano stati consumati. I seni, gli occhi, stessa cosa. Le avevo addirittura estratto un rene. L’ultima cosa che mangiammo fu la sua lingua. Non poteva parlare, ma mi esprimeva la sua gratitudine sorridendo con quella sua meravigliosa bocca.
Fino a che non capii che era ora. L’ultimo pasto sarebbe toccato a me, e a me solo. Lei non sarebbe sopravvissuta per poter degustare le delizie di quell’ultimo banchetto.
Mi dispiace tesoro, non sono riuscito a completare ciò che mi avevi chiesto. Ho provato a mangiare tutto, ma forse sono ancora troppo legato alle cose terrene, mia cara. Parlo del tuo amore mia bella, del tuo amore. Perché noi ci amavamo, mia cara. Il tuo cuore. Non ce l’ho proprio fatta.
Lo tengo ancora nel freezer.

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